TRAMA
Nell’Italia rurale del dopoguerra, Pietro, un bambino di sei anni, non vive una vita semplice: i suoi genitori sono contadini in miseria e la casa in cui vivono cade a pezzi. Un giorno, a portarlo via da lì, via dai genitori, via da tutto ciò che conosce, si presenta un uomo enorme, con una grossa pancia e la testa completamente pelata, tonda e liscia come il fondo consunto di una pentola di rame: è l’ispettore incaricato di condurlo in collegio.
Mentre si allontana su un carro cigolante, Pietro si ripete che tornerà presto a casa, quando suo padre, con una bocca in meno da sfamare, smetterà di essere povero, e quando la mamma guarirà dalla malattia che, spesso, la costringe a letto per giorni interi.
Da lontano il collegio ricorda un cimitero, con l’alto muro di pietra dietro il quale svettano gli alberi. Dentro tutto è sporco, freddo, trascurato, quasi marcescente, e le suore, soprattutto quelle anziane, sono donne dall’animo gelido, indifferenti e severe. Nel refettorio, silenzioso e cupo, viene servito cibo rancido, ma chi prova a lamentarsi o a protestare resta a digiuno. I pavimenti sono neri e appiccicosi sotto le scarpe, le pareti sembrano unte d’olio e c’è sempre un tanfo terribile. Nelle mattine d’inverno il gelo punge sulle ginocchia come aghi di pino e, poiché non ci sono bracieri per riscaldarsi, le mani tremano al punto che non riescono nemmeno a intingere i pennini nell’inchiostro. Le suore non esitano a infliggere punizioni e cinghiate e, all’occorrenza, a rinchiudere i bambini nella torre.
Per sopravvivere agli orrori del collegio, Pietro stringe amicizia con Mario, un ragazzino sveglio e intelligente. Nonostante sia più grande di un anno, Mario ha il corpo minuto ed è più basso degli altri bambini della sua età, come se non fosse cresciuto abbastanza. Le suore lo chiamano «la peste», per via del suo spirito ribelle che, più di una volta, lo ha portato a tentare la fuga.
È sempre stato riacciuffato e picchiato, ma Mario non si è mai arreso, fino al giorno in cui una punizione più dura del solito lo fa cadere malato. Solo allora Pietro capisce che dovrà mettere da parte la paura e scoprire il coraggio se vuole salvare l’amico e ritrovare la libertà.
Con Il cortile di pietra Francesco Formaggi, già autore de Il casale, ci consegna un romanzo maturo che, attraverso lo sguardo sensibile e curioso di un bambino, parla di soprusi e di resistenze, di segreti inconfessabili e dell’amicizia pura e limpida fra due bambini privati di tutto, ma non della voglia di vivere.
Mentre si allontana su un carro cigolante, Pietro si ripete che tornerà presto a casa, quando suo padre, con una bocca in meno da sfamare, smetterà di essere povero, e quando la mamma guarirà dalla malattia che, spesso, la costringe a letto per giorni interi.
Da lontano il collegio ricorda un cimitero, con l’alto muro di pietra dietro il quale svettano gli alberi. Dentro tutto è sporco, freddo, trascurato, quasi marcescente, e le suore, soprattutto quelle anziane, sono donne dall’animo gelido, indifferenti e severe. Nel refettorio, silenzioso e cupo, viene servito cibo rancido, ma chi prova a lamentarsi o a protestare resta a digiuno. I pavimenti sono neri e appiccicosi sotto le scarpe, le pareti sembrano unte d’olio e c’è sempre un tanfo terribile. Nelle mattine d’inverno il gelo punge sulle ginocchia come aghi di pino e, poiché non ci sono bracieri per riscaldarsi, le mani tremano al punto che non riescono nemmeno a intingere i pennini nell’inchiostro. Le suore non esitano a infliggere punizioni e cinghiate e, all’occorrenza, a rinchiudere i bambini nella torre.
Per sopravvivere agli orrori del collegio, Pietro stringe amicizia con Mario, un ragazzino sveglio e intelligente. Nonostante sia più grande di un anno, Mario ha il corpo minuto ed è più basso degli altri bambini della sua età, come se non fosse cresciuto abbastanza. Le suore lo chiamano «la peste», per via del suo spirito ribelle che, più di una volta, lo ha portato a tentare la fuga.
È sempre stato riacciuffato e picchiato, ma Mario non si è mai arreso, fino al giorno in cui una punizione più dura del solito lo fa cadere malato. Solo allora Pietro capisce che dovrà mettere da parte la paura e scoprire il coraggio se vuole salvare l’amico e ritrovare la libertà.
Con Il cortile di pietra Francesco Formaggi, già autore de Il casale, ci consegna un romanzo maturo che, attraverso lo sguardo sensibile e curioso di un bambino, parla di soprusi e di resistenze, di segreti inconfessabili e dell’amicizia pura e limpida fra due bambini privati di tutto, ma non della voglia di vivere.
Oggi vi parlo di un romanzo che mi ha profondamente toccata, perché tratta un tema non facile da approcciare: il senso di abbandono visto con gli occhi di un bambino.
"Il cortile di pietra" racconta la storia di Pietro, cresciuto fino ai sei anni con un padre anaffettivo e una madre spesso costretta a letto da una misteriosa malattia. La vicenda è ambientata in un luogo d'Italia imprecisato e in un tempo indefinito ma lontano, presumibilmente nel primo dopoguerra, e proprio la mancanza di riferimenti spazio-temporali permette al lettore di concentrarsi sul vissuto di Pietro e sulle sue senzazioni.
La famiglia di Pietro vive in uno stato di estrema indigenza e decide di affidare il figlio ad un convento di suore, forse per salvarlo dalla povertà, più verosimilmente solo per avere una bocca in meno da sfamare.
Il viaggio verso il convento è anche un viaggio nei sentimenti che Pietro prova, negli interrogativi che si pone in merito ai motivi per cui la famiglia lo rifiuti, nel senso di abbandono che permea tutti i suoi pensieri e le sue azioni.
L'arrivo al collegio, poi, è una spirale discendente tra abusi, punizioni corporali e non, angherie perpetrate dai ragazzi più grandi, tra malnutrizione, freddo, sporcizia, fino all'incontro con Mario, un bambino poco più grande di età ma molto più minuto rispetto a lui, dalla tempra d'acciaio e dallo spirito ribelle. Quando Pietro lo incontra, Mario ha già tentato più volte la fuga e il patto di tentare una nuova fuga insieme suggellerà la loro amicizia. Il legame che si crea tra loro diventa uno spiraglio di luce per entrambi, il senso di appartenenza ad un altro essere umano dà loro la forza di vivere un giorno dopo l'altro come se le nefandezze che li circondano non appartenessero più a loro.
Un giorno però, a una disobbedienza più grossa del dovuto consegue una punizione esemplare: dieci frustate e la reclusione in una torre buia e fredda. Non è tanto il dolore fisico a far vacillare Pietro, quanto il senso di desolazione e, di nuovo, l'abbandono che lo provano nel profondo.
"La suora che lo teneva per mano lo scosse, lo strattonò, Pietro tornò dritto, il braccio penzoloni, e non sentiva più neanche il dolore delle frustate, come se il suo corpo non gli appartenesse più. Ma la sensazione più brutta di tutte, che pure non riusciva a comprendere bene e a cui non avrebbe saputo dare un nome, era il vuoto che avvertiva confusamente dentro di sé, come se la mano di suor Brigida, frustandolo, gli avesse portato via tutte le immagini e i pensieri che abitavano la sua mente, lasciandogli la testa vuota come un museo saccheggiato. E lo sforzo più grande non era stato sopportare il dolore, tremando e sussultando ai colpi della cinghia, ma quello di trattenere i pensieri, di non farseli portare via, nel buio, resistendo alla forza che glieli voleva sottrarre puntando i piedi e tirando più forte verso di sé; quando però aveva aveva mollato la presa, desiderando soltanto accucciarsi all'ombra, nelle nicchie vuote che i quadri saccheggiati lasciavano nella sua mente, aveva provato una sensazione terribile, come se stesse scomparendo anche lui."
La forza dell'amicizia farà affrontare e superare a Pietro le sue paure più grandi, quella del buio sopra a tutte, il desiderio di salvare l'amico che a causa di quella punizione cade malato, gli darà il vigore per combattere i suoi mostri peggiori, quasi che per lui salvare l'amico equivalga a salvare se stesso.
Solo verso la fine del romanzo c'è un lampo di speranza per Pietro, una sorta di riscatto, rispetto al quale ho avuto l'impressione che l'autore abbia voluto mandare un messaggio di speranza nella bontà dell'animo umano, che prima o poi nella vita si ha la fortuna di incontrare.
Un romanzo che è un elogio alla forza dei bambini di resistere alle sopraffazioni e alla loro enorme fiducia nel futuro, quella stagione della vita durante la quale anche se non si possiede nulla si mantiene intatta la voglia di vivere.
Se noi adulti riuscissimo a conservare nei bambini un po' di quella fiducia nel futuro, il mondo sarebbe un posto migliore.
Un romanzo da leggere e da far leggere.
"Il cortile di pietra" racconta la storia di Pietro, cresciuto fino ai sei anni con un padre anaffettivo e una madre spesso costretta a letto da una misteriosa malattia. La vicenda è ambientata in un luogo d'Italia imprecisato e in un tempo indefinito ma lontano, presumibilmente nel primo dopoguerra, e proprio la mancanza di riferimenti spazio-temporali permette al lettore di concentrarsi sul vissuto di Pietro e sulle sue senzazioni.
La famiglia di Pietro vive in uno stato di estrema indigenza e decide di affidare il figlio ad un convento di suore, forse per salvarlo dalla povertà, più verosimilmente solo per avere una bocca in meno da sfamare.
Il viaggio verso il convento è anche un viaggio nei sentimenti che Pietro prova, negli interrogativi che si pone in merito ai motivi per cui la famiglia lo rifiuti, nel senso di abbandono che permea tutti i suoi pensieri e le sue azioni.
L'arrivo al collegio, poi, è una spirale discendente tra abusi, punizioni corporali e non, angherie perpetrate dai ragazzi più grandi, tra malnutrizione, freddo, sporcizia, fino all'incontro con Mario, un bambino poco più grande di età ma molto più minuto rispetto a lui, dalla tempra d'acciaio e dallo spirito ribelle. Quando Pietro lo incontra, Mario ha già tentato più volte la fuga e il patto di tentare una nuova fuga insieme suggellerà la loro amicizia. Il legame che si crea tra loro diventa uno spiraglio di luce per entrambi, il senso di appartenenza ad un altro essere umano dà loro la forza di vivere un giorno dopo l'altro come se le nefandezze che li circondano non appartenessero più a loro.
Un giorno però, a una disobbedienza più grossa del dovuto consegue una punizione esemplare: dieci frustate e la reclusione in una torre buia e fredda. Non è tanto il dolore fisico a far vacillare Pietro, quanto il senso di desolazione e, di nuovo, l'abbandono che lo provano nel profondo.
"La suora che lo teneva per mano lo scosse, lo strattonò, Pietro tornò dritto, il braccio penzoloni, e non sentiva più neanche il dolore delle frustate, come se il suo corpo non gli appartenesse più. Ma la sensazione più brutta di tutte, che pure non riusciva a comprendere bene e a cui non avrebbe saputo dare un nome, era il vuoto che avvertiva confusamente dentro di sé, come se la mano di suor Brigida, frustandolo, gli avesse portato via tutte le immagini e i pensieri che abitavano la sua mente, lasciandogli la testa vuota come un museo saccheggiato. E lo sforzo più grande non era stato sopportare il dolore, tremando e sussultando ai colpi della cinghia, ma quello di trattenere i pensieri, di non farseli portare via, nel buio, resistendo alla forza che glieli voleva sottrarre puntando i piedi e tirando più forte verso di sé; quando però aveva aveva mollato la presa, desiderando soltanto accucciarsi all'ombra, nelle nicchie vuote che i quadri saccheggiati lasciavano nella sua mente, aveva provato una sensazione terribile, come se stesse scomparendo anche lui."
La forza dell'amicizia farà affrontare e superare a Pietro le sue paure più grandi, quella del buio sopra a tutte, il desiderio di salvare l'amico che a causa di quella punizione cade malato, gli darà il vigore per combattere i suoi mostri peggiori, quasi che per lui salvare l'amico equivalga a salvare se stesso.
Solo verso la fine del romanzo c'è un lampo di speranza per Pietro, una sorta di riscatto, rispetto al quale ho avuto l'impressione che l'autore abbia voluto mandare un messaggio di speranza nella bontà dell'animo umano, che prima o poi nella vita si ha la fortuna di incontrare.
Un romanzo che è un elogio alla forza dei bambini di resistere alle sopraffazioni e alla loro enorme fiducia nel futuro, quella stagione della vita durante la quale anche se non si possiede nulla si mantiene intatta la voglia di vivere.
Se noi adulti riuscissimo a conservare nei bambini un po' di quella fiducia nel futuro, il mondo sarebbe un posto migliore.
Un romanzo da leggere e da far leggere.
Recensione stupenda lo aggiungo alla lista ^_^
RispondiEliminaGrazie Patrizia e buona lettura ;)
EliminaRecensione bellissima, libro in lista da un pezzo.
RispondiEliminaNon leggo Neri Pozza da troppo tempo per i miei gusti, uff!
Grazie Michele.
EliminaE cosa aspetti? I Neri Pozza non sono mai abbastanza ;)
Ecco qua, aggiungo pure questo alla lista, che a questo punto è diventata infinita! Grazie del consiglio e della bella recensione!
RispondiEliminaCome ti capisco! Sto meditando di usare la mia lista come carta da parati, così ce l'ho sempre sott'occhio. Peccato che le giornate siano così corte.
EliminaUn bacio e grazie a te
A tratti mi ha ricordato Una vita come tante, il libro più bello che ho mai letto.
RispondiEliminaPer questo motivo per ora passo la lettura di questi Neri Pozza, Jude è ancora troppo vivo in me.
Immagino che sia una lettura che accompagni per lungo tempo. Per fortuna i libri non scadono ;)
Elimina